Un piccolo saggio (affannato) sull’arte e sui selfie

“Saremo sempre un po’ troppo impegnate a far finta che non ci importi, e un po’ troppo ansiose di dimostrare che siamo state esattamente dove dovremmo essere”.

Nelle note del mio iPhone, appunto frasi che leggo qua e là. Quella che riporto qui a fianco, non ricordo esattamente da dove arrivi, ma si dà il caso che calzi a pennello per quello di cui andremo a parlare a breve.

L’altra settimana ho fatto la mia parte, mi sono immolata per voi (e soprattutto per me) al rito della grande mostra del momento.

Avete presente: quel tipo di evento culturale che diventa, nel giro di qualche weekend, super chiacchierato sui social, una tappa obbligata per chi voglia mantenere una parvenza di vita intellettuale sul proprio feed.

Questa volta, l’onere è caduto su M.C. Escher al MUDEC di Milano.

Devo fare prima di tutto un mea culpa: non sono mai stata al MUDEC e non pensavo minimamente che fosse un luogo tanto frequentato.

Disclaimer a parte, una volta entrata alla mostra sono rimasta sorpresa: l’aria non era certo quella che si respira solitamente nei luoghi d’arte. Le sale brulicavano di persone che non fissavano tanto le opere, quanto lo schermo. Ho visto turisti francesi, inglesi, americani, tutti davanti agli specchi in cerca della giusta angolatura per riprendersi.

Una ripresa, due riprese. C’è chi si vedeva bene in video e chi no, dunque riprendiamo ancora. Il concetto di Infinito di Escher è stato sostituito da quello della ripetizione ossessiva.

Lungi da me lanciare il sasso e nascondere la mano. Sono la prima a frequentare mostre e a dilettarmi nella fotografia di ciò che vedo. Ma questo arriva in un secondo momento.

Per me dedicare del tempo in questa maniera significa darmi l'opportunità di imparare qualcosa di nuovo sul mondo e su di me, su come leggo e metabolizzo quello che vedo. È un processo lento, una specie di digestione mentale.

Ma durante la visita, le persone erano così tante che si creavano ingorghi veri e propri. Dovevi farti largo (talvolta con un certo nervosismo, lo ammetto) per vedere qualcosa che non fosse la schiena di qualcun altro che inquadrava il soffitto.

Il fag e la giostra

Mi chiedo dunque: perché fare un viaggio, pagare il biglietto e lottare nella calca, se alla fine l’unica traccia che lasciamo è un selfie frettoloso e superficiale?

È solo un flag su una casellina di cose da pubblicare. Un “io ci sono stato” buttato nel calderone dei contenuti che pubblichiamo e, senza masticarli, deglutiamo velocemente in cerca del prossimo.

Mi spiace criticare, perché sono consapevole di far parte io stessa di questa giostra che non si ferma. Ma ogni tanto, mi piacerebbe che ci concedessimo tutti la possibilità di fermarci per un po' davanti a quello che stiamo guardando, di digerirlo e non solo ingoiarlo.

Forse così non verrà fuori un contenuto virale, ma ci ricorderemo cosa abbiamo visto una volta usciti. E, in fondo, l’arte non dovrebbe servire anche a questo? A restarci attaccata nel tempo e, in qualche modo, cambiarci un po’ (in meglio, ça va sans dire).

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IRIS ARCADE: la terapia dell'imperfezione. Dove il disegno è puro, selvaggio divertimento